Carlo Cittadini

Carlo Cittadini
c.cittadini@fastwebnet.it
www.carlocittadini.it

TORNA ALLA HOME PAGE ENGLISH VERSION

“considero l’Interplay nel jazz una delle più alte forme d’arte esecutiva”

INTERPLAY

Il termine “Interplay” può avere diversi significati. Potremmo dire che la musica d’insieme si suona sempre in interplay, visto che il risultato finale è dato dalla relazione che c’è fra tutti gli strumenti impegnati.

Nell’accezione storica jazzistica il termine si riferisce invece a una precisa concezione musicale, dove i “ruoli” degli strumenti saltano a favore di un lavoro di interscambio attraverso il quale ogni esecutore influenza l’altro. Per “ruolo” intendiamo la funzione tradizionale assegnata a ogni strumento e che si è consolidata storicamente. Il riferimento principale è a strumenti come il basso e la batteria tradizionalmente relegati a una funzione di accompagnamento.

L’era dello Swing aveva consolidato un organizzazione del complesso musicale che vedeva la sezione ritmica destinata a svolgere la funzione di generatore del ritmo e portatrice del “beat”, la pulsazione di base.

Nel Be-bop il ruolo della sezione ritmica non cambia, ma l’approccio ritmico degli strumenti solisti cambia radicalmente nella direzione di auto-sostentamento ritmico, diventando essi stessi, attraverso il nuovo linguaggio improvvisativo del be-bop, generatori di ritmo.

Per il pianoforte è una vera rivoluzione, con la mano destra che prende il sopravvento diventando autosufficiente e a sua volta propulsore ritmico.

E’ difficile determinare con esattezza il momento della nascita di una prima forma di interplay e probabilmente questo è avvenuto all’ inizio senza una consapevolezza chiara del cambio di concezione ma attraverso una spinta e un esigenza espressiva.

Sicuramente c’è un influenza culturale che ne ha favorito la nascita.

Nell’America degli anni cinquanta troviamo un clima culturale di grande attrazione nei confronti delle forme artistiche europee. Nella musica classica assistiamo a una vera colonizzazione da parte degli artisti europei. Grandi musicisti ed esecutori del vecchio continente si esibiscono in America, ne fanno la loro patria d’adozione, tengono corsi e fondano scuole. L’influenza di Rachmaninoff sulla cultura americana è enorme. Non solo incarna la figura del grande pianista russo creando un proselitismo considerevole ma soprattutto l’effetto della sua musica (specialmente dei concerti per pianoforte e orchestra) pervaderà l’immaginario musicale degli americani per anni. Il suo esempio sarò seguito da altri fra cui Vladimir Horowitz che si stabilizza negli States divenendo una leggenda vivente. Fra gli altri il pianista francese Robert Casadesus insegnerà stabilmente in America e lo stesso fa Rosina Lhevinne, depositaria dell’arte pianistica del grande Joseph Lhevinne, insegnante alla Juillard e che annovera fra i suoi allievi Van Cliburn unico pianista americano a vincere il famoso concorso Caikovskij di Mosca.

Intanto un po’ più a nord, in Canada esplode il genio di Glenn Gould che nel ’55 crea un vero e proprio terremoto musicale con l’incisione delle Variazioni Goldberg di Bach e nel ’57 va in tournee nell’Unione Sovietica propagandando e divulgando proprio l’arte del grande compositore barocco.

Lo stesso discorso vale per il cinema. Compositori europei si trasferiscono in America e vengono arruolati nell’industria cinematografica contribuendo a quella che sarà chiamata la “Golden Age” di Hollywood.

Il jazz respira questo clima e comincia a coltivare interesse per varie forme della musica colta. In particolare il contrappunto barocco, rivisto alla luce della nuova generazione di interpreti classici, assume un aspetto, grazie alla linearità armonica del suo disegno, molto familiare agli occhi dei musicisti jazz del movimento “cool” che si sta affermando nella West-Coast.

Il quartetto di Gerry Mulligan comincia a praticare una forma di Interplay nell’intreccio di natura contrappuntistica dei due strumenti solisti. In questo senso la mancanza del pianoforte favorisce la purezza dello scambio delle linee tra il sax baritono di Mulligan e la tromba di Chet Baker.

Sicuramente più dichiarato è il riferimento al contrappunto nel Modern Jazz Quartet. Qui la presenza di Interplay, seppure preordinata, riguarda a volte anche la sezione ritmica che partecipa al contrappunto e garantisce la propulsione di base.

L’idea che il tempo base, il cosiddetto straight four, possa essere ormai abbandonato comincia a prendere forma. L’articolazione ritmica dell’improvvisazione, sempre più elaborata e ricca, permette alla sezione ritmica di svincolarsi definitivamente dal suo vecchio ruolo, interagendo col solista in una sorta di contrappunto a più voci.

La formazione che affronta in modo sistematico questa nuova concezione musicale e getta le basi per il suo sviluppo è senz’altro il trio di Bill Evans. Per Bill Evans l’anno successivo a quello dell’uscita definitiva dal gruppo di Miles Davis è quello decisivo. Dopo alcune esperienze di aggiustamento con trii diversi, Evans incontra nuovamente il giovane contrabbassista Scott La Faro con cui aveva suonato durante un incisione con Chet Baker. Il pianista ricorda la sensazione, avuta al primo incontro, di avere davanti un talento creativo e originale ma piuttosto strabordante. Ora il suo stile originale è maturato e ha i contorni ben definiti. L’idea di LaFaro è quella di abbandonare sostanzialmente la scansione del beat a favore di una specie di commento alla linea del solista. Questa idea si aggancia perfettamente alla ricerca di Evans di uno stile più espressivo, libero e ricco di sfumature, che abbandoni i vecchi clichè del Be-bop e sia supportato da quel linguaggio armonico sofisticato che appartiene al suo background. Ne nasce una sorta di improvvisazione simultanea giocata sulla capacità di ascolto e di interazione fra gli strumenti. Tutto questo sottintende una rivoluzione dal punto di vista ritmico. Il tempo diventa come sottinteso con un andamento spezzato e in questa rarefazione si gioca l’interplay, in un rapporto stretto fra gli strumenti che si suggeriscono a vicenda idee ritmiche da sviluppare.

BLarry Bunker - Bill Evans - Chauck Israelsill Evans, Scott LaFaro, Paul Motian, il primo Bill Evans Trio avrà vita breve per la prematura scomparsa di LaFaro, morto in un incidente d’auto. Lo sostituisce Chuck Israels e più tardi arriverà anche Larry Bunker al posto di Motian. Israels stava lavorando nella stessa direzione di LaFaro e non era il solo, lui stesso cita almeno altri due bassisti che suonavano in quel modo, a dimostrazione che il “movimento” dell’Interplay si stava allargando.

Con il secondo Trio e successivamente il terzo, Eddie Gomez e Marty Morrell, il linguaggio si consolida adattandosi alle personalità dei musicisti.

Nel terzo trio la dinamicità e il virtuosismo dei suoi componenti contribuiscono a creare un interplay rapido e brillante dove gli interscambi si fanno strettissimi mantenendo allo stesso tempo una liricità difficilmente pensabile fino ad allora per una formazione jazz.

Altri trii nel jazz hanno lavorato e sviluppato magari parzialmente l’Interplay sulla scia del trio di Bill Evans. In ogni caso quell’esperienza ha lasciato una traccia indelebile nell’approccio ritmico di molte formazioni che si sono succedute sulla scena del jazz. I celebrati trii che sono attualmente in auge, compreso il popolarissimo trio di Keith, Jarrett sono sicuramente epigoni di quell’esperienza. C’è da dire però che la filosofia di quella concezione è stata sostanzialmente abbandonate e in un certo senso sconfitta. La fine degli anni settanta e l’avvento del nuovo decennio hanno visto un cambio di rotta culturale. La contaminazione del jazz con la musica pop e rock ha spostato l’interesse ritmico verso la poliritmicità e il ritmo “sottinteso” e implicito dell’interplay è stato sommerso dal ritmo pulsante ed esplicito proveniente da altre culture musicali.

La nostra speranza è che in un futuro prossimo in un auspicabile cambiamento di rotta culturale, si possa risentire l’esigenza di una più profonda esperienza musicale.


Carlo Cittadini